WU MING 2 - LA DITTA AGSM
La ditta AGSM, di proprietà del comune di Verona, vuole costruire una centrale eolica sul Monte dei Cucchi, in provincia di Bologna. Un complesso da ventiquattro turbine alte come la torre degli Asinelli (70 metri di supporto e una tripala di 26 metri di raggio). Ogni aerogeneratore poggerà su una base di cemento armato profonda dieci metri e larga quindici, all’interno di una piazzola sgombra, pianeggiante e ciottolata di venti metri per trenta. Per montare e gestire l’impianto bisognerà aprire una strada asfaltata, abbastanza larga per il passaggio di camion e ruspe, e interrare un cavo lungo tredici chilometri. Tutto questo su un crinale fitto di boschi, famoso per la frana che nel 1951 distrusse il paese di Castel dell’Alpi e formò il lago omonimo sul torrente Sàvena.
Lo chiamano parco eolico, che è come battezzare una guerra operazione di polizia internazionale. Si sa che gli uomini amano camuffare i loro crimini commettendo crimini contro il vocabolario.
I cittadini della zona hanno saputo del progetto quando sono arrivate le prime lettere per l’esproprio dei terreni. Allora si sono organizzati, hanno raccolto firme e informazioni, sono andati più volte dal sindaco, hanno messo in piedi un comitato. Alla fine il comune di San Benedetto ha espresso il suo parere negativo sull’impianto, mentre la Provincia di Bologna continua a sostenerlo. La stessa Provincia, vent’anni fa, finanziava una serie di fascicoli per proporre itinerari a piedi in luoghi di particolare interesse naturale e paesaggistico. La serie usciva in edicola come allegato a La Repubblica e il fascicolo numero quattro era dedicato a un monte franoso e ricco di fauna. Il Monte dei Cucchi.
Dunque la Provincia ha cambiato idea: non più il turismo sostenibile, per valorizzare la zona, ma l’energia pulita, in nome dell’interesse pubblico.
Ma è davvero pubblico l’interesse di un impianto simile?
Nel 2007 la Commissione Europea ha pubblicato un grafico sui rendimenti dell’energia eolica. Ad ogni paese dell’Unione corrispondono una tacca blu e un pallino rosso. La tacca blu rappresenta il costo di un megawatt/ora di elettricità, il pallino rosso è il ricavo che se ne ottiene. In Spagna, per esempio, il costo medio di un Mw/h è di sessanta euro, il ricavo medio sfiora gli ottanta, quindi il guadagno netto si aggira sui venti euro. E in Italia? Nella colonna dell’Italia il pallino rosso non c’è, è scomparso. Chi si è preso la briga di cercarlo l’ha scovato in alto, molto in alto, nascosto sotto il titolo del diagramma, perché il ricavo medio delle turbine italiane è di 170 euro per megawatt/ora, con un guadagno netto dieci volte superiore a quello dei tedeschi e cinque volte quello degli spagnoli. Il motivo è che in Italia i proventi dei mulini dipendono per una metà dagli incentivi statali, che sono i più alti d’Europa. Grazie a questo sistema un’azienda può far soldi con le sue pale anche se il vento è poco e la tecnologia che adotta non è la migliore.
Nel frattempo, gli incentivi pesano sulle bollette dell’elettricità e così tutti pagano per impianti che funzionano male e fanno guadagnare soprattutto chi li ha costruiti.
Socializzare i costi, privatizzare il profitto. La regola d’oro del capitalismo italiano.
Certo esisteranno aziende che misurano il vento con attenzione e investono denaro nella ricerca per avere macchine efficienti, sicure, con un impatto limitato. Ma chi controlla che sia davvero così? Quando la Provincia di Bologna sostiene che la centrale del Monte dei Cucchi ha un interesse pubblico, sa davvero di cosa sta parlando? Qualche tecnico imparziale ha dato un’occhiata ai rilievi anemometrici di AGSM?
Oggi esistono molti progetti alternativi per mettere Eolo al lavoro: dagli aquiloni KiteGen alle miniturbine, dagli impianti che sfruttano le turbolenze alle pale “domestiche”. AGSM ritiene che ventiquattro generatori alti cento metri siano la soluzione più indicata per un crinale di montagna a mille metri di altitudine. Qualcuno ha verificato che sia davvero così?
L’unica energia veramente pulita si misura in negawatt, ed è quella che non si produce, grazie al risparmio e all’efficienza della rete. Estrarre elettricità da fonti rinnovabili è comunque un’ottima idea, a patto che il processo non consumi una risorsa che invece non si rinnova: il territorio. Date le caratteristiche geografiche e climatiche dell’Italia, per produrre con le grandi turbine eoliche l’equivalente di un milione di tonnellate di petrolio, servirebbero 34000 ettari di terreno, più dell’intera provincia di Trieste, contro i 4500 degli impianti fotovoltaici integrati, i 1800 del solare termico, i 750 dei residui dell’agricoltura. Oggi gli impianti eolici della Penisola producono il 16% di elettricità rispetto alle promesse (la potenza installata) e lavorano in media 1500 ore all’anno, cioè due mesi. Questo significa che le centrali realizzate fin qui - più che altro con grandi turbine - non sfruttano a dovere il vento e consumano il territorio.
Ma AGSM sostiene che quello delle sue torri “non è un vero e proprio impatto, perché non è sottrazione di habitat, di utilizzo o di usufruibilità; è modifica nella percezione di un paesaggio”.
Ancora una volta, più che lottare con i numeri, si finisce per lottare con le parole. Impatto ha la stessa etimologia di pattume. Entrambe le parole derivano dalla radice pat-, che sta per piede, e hanno a che fare con le impronte, materia pestata e infradiciata, buona per concimare e ingrassare la terra, quindi per estensione scarti organici e più in generale rifiuti. Difficile dire che l’impianto dell’AGSM non lascerebbe un’impronta sul Monte dei Cucchi, infarcendolo di scorie gigantesche. Quanto all’habitat, esso è l’insieme delle condizioni fisiche che circondano una specie. E qualunque sia la specie che si vuole considerare, dagli abeti ai rapaci ai fungai dell’Appennino, sbancare un bosco è sconvolgere l’habitat di diverse comunità.
Per affermare il contrario, bisognerebbe sconvolgere anche la lingua italiana.
Rispetto alla sottrazione di utilizzo, AGSM confonde le carte, mescola i territori. Gerolamo ricorda un viaggio in treno, da Parigi a Orléans. Decine di pale enormi, bianche, in mezzo alla pianura francese, ai campi di barbabietola e di grano, ai tralicci dell’alta tensione, ai silos per cereali. Un impatto di media entità (come l’impronta di un piede su un terreno già molto calpestato), il rumore delle pale, ma l’utilizzo umano del luogo resta più o meno invariato: le fondamenta delle torri eoliche occupano qualche ettaro di terreno, su una superficie vastissima e uniforme, e tutt’intorno ancora si coltiva. Una situazione impossibile da riprodurre su un crinale montuoso coperto di abeti, aceri e faggi, a più di mille metri d’altezza.
E la modifica nella percezione del paesaggio? Anche quello un gioco di parole, per far sembrare il danno soggettivo, meno grave di quel che è. Si modifica la percezione, non la sostanza delle cose. Ma il paesaggio - secondo la convenzione europea sottoscritta dall’Italia nel 2006 - “designa una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni” (Sottinteso: umane)
Dunque non c’è differenza tra paesaggio e percezione del paesaggio, anche se AGSM vorrebbe farcelo credere.
Tempo fa ho trovato su Repubblica.it un servizio fotografico tutto dedicato agli impianti eolici. Didascalie entusiaste per il diffondersi dei mulini a vento, simboli dell’energia alternativa, accompagnavano le immagini dall’alto, dal finestrino di un aereo. Le stesse torri, inquadrate da terra, non avrebbero prodotto soltanto un effetto differente, una diversa percezione. Se cambia il punto di vista, cambia pure il paesaggio. L'elevazione ci trasforma in voyeur, la strada in cittadini. Google Earth ci insegna che anche una discarica di lamiera può essere una meraviglia, se inquadrata da un satellite.
Per questo amiamo guardarci dall’alto, specchiarci come Narciso nelle acque della nostra indifferenza.
Ma qui non si tratta di decidere che cosa è bello e che cosa no. Le grandi pale bianche, di per sé, non sono brutte. Anzi, fanno pensare a don Chisciotte e hanno un che di metafisico. Se rovinano un paesaggio non è perché sono sgorbi in un quadretto idilliaco, ma perché annullano il senso dei luoghi. Esiste un paesaggio laddove sul territorio si riconoscono dei segni, quelli che un geografo chiamerebbe iconemi. Costruire un’opera senza tener conto di questi elementi rischia di cancellarli, di lasciare un vuoto. Una campagna coperta di capannoni nel giro di pochi anni non è soltanto più brutta: è un territorio senza paesaggio, una frase senza sintassi, un ambiente alieno da chi lo abita. Al contrario, un minareto che si alza in un quartiere padano abitato da musulmani, è un cambiamento del paesaggio che rende visibile un cambiamento sociale. La sua presenza è perfettamente giustificata, e chi la combatte non lo fa per difendere lo skyline di periferia da una costruzione stonata. Vietare certi simboli significa impedire agli uomini di rispecchiarsi nel loro ambiente.
Tenere conto degli iconemi vuole anche dire comprendere la loro gerarchia. Un minareto in periferia è diverso da un minareto sulla piazza principale, di fianco al municipio. Una cicatrice sulla faccia e una sulla schiena possono essere identiche, ma certo non sono la stessa per l’individuo che le porta. Dove sta Monte dei Cucchi? Vicino alla faccia o vicino alla schiena? AGSM ha presentato il suo progetto senza domandarlo a nessuno. Eppure, il Dossier regionale sull’Eolico del maggio 2007 afferma che:
"è fondamentale la partecipazione degli abitanti alle diverse possibili soluzioni, che dovranno essere in sintonia non solo alle considerazioni inerenti la percezione visiva, ma anche a quanto attiene ad altri valori (culturali, storici, ambientali, simbolici...)"
Se si fa fatica ad ascoltare gli abitanti umani di un territorio, che ne sarà di tutti gli altri? Chi rappresenterà il punto di vista del falco, del cinghiale, dell’abete? E i loro voti avranno lo stesso peso di quelli umani oppure la democrazia vale soltanto per noi? Quando qualcuno si preoccupa per la sicurezza delle pale eoliche, le ditte produttrici rispondono che gli incidenti sono molto limitati, ma si tratta di un falso ideologico, che trascura un olocausto di pipistrelli e una strage di rapaci. Perché la nostra è una civiltà controfattuale, basata su un periodo ipotetico dell’irrealtà, un what if distopico e aberrante che prima o poi finirà per travolgerci: fare come se gli altri non esistessero. Si dirà che non ha senso rivendicare i diritti del faggio e della volpe in un paese dove contano poco i diritti degli stranieri, degli omosessuali e dei senzatetto. Ma in realtà la questione è sempre la stessa: si tratta di capire se l’Altro è solo un rumore di fondo oppure una voce che ci preme ascoltare.
Il narcisismo culturale spinge l’Homo sapiens a custodire un antico palazzo molto più di un bosco o di un torrente. Se una ditta di Verona venisse a installare una pala eolica sulla Torre degli Asinelli, le faremmo ripassare il Po a calci nel culo e nessuno ci farebbe una diagnosi di sindrome NIMBY (Not in My BackYard: l’energia rinnovabile sì, ma non nel mio cortile). Invece, se gli abitanti di una valle si ribellano, perché qualcuno vuole modificare il profilo di una montagna, ecco che ci indigniamo contro questi nostalgici, nemici del progresso, primitivi e antimoderni, e ascoltiamo quel che hanno da dire solo in campagna elettorale, se si mettono a parlare di turismo, valore degli immobili e pericolo di frane.
Le frane dell’immaginario sembrano sempre le più innocue.
WU MING 2 - LA DITTA AGSM - aprile 2010
10/05/10
WU MING 2 - LA DITTA AGSM (Il narcisismo culturale e le frane dell'immaginario)
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